Grammaroli marmi e restauri a Roma e Fiumicino

La ditta Grammaroli marmi e restauri a Roma raccoglie il testimone di generazioni di artigiani che sotto il marchio Grammaroli si sono distinti nella lavorazione artistica del marmo. Il punto vendita ha oggi sede in Via delle idrovore di Fiumicino, 203.

Attività produttive della ditta Grammaroli marmi e restauri a Roma 
Oggi l’azienda diversifica la propria presenza sul mercato interessandosi ai diversi rami che l’esperienza le può permettere di approcciare: l’arte funeraria, rappresentata dal lavoro cimiteriale più classico, quello delle lapidi, dei monumentini, degli ossari e dei cinerari; l’edilizia cimiteriale, che interessa la costruzione di tombe, edicole, cappelle ed i rivestimenti di cappelle grezze; i restauri, che oltre un secolo di esperienza ci ha insegnato a trattare in punta di scalpello.
Grazie al know how del nostro personale, interveniamo sovente su beni artistici, con particolare attenzione rivolta verso i vari aspetti del restauro monumentale, ecclesiastico e civile.

La ditta Grammaroli marmi e restauri a Roma opera a Fiumicino, Roma, provincia, e a livello nazionale.
Possediamo tutte le attrezzature e i mezzi necessari per eseguire le commesse che scrupolosamente e con professionalità esaminiamo ed acquisiamo, come murature, intonaci, pavimentazioni e rivestimenti di tutti i tipi, posa marmi e pietre, tetti in muratura, tegole, piombo e facciate.
La ditta Grammaroli marmi e restauri a Roma è leader nell’edilizia monumentale e nel restauro d’arte; negli anni ha saputo fondere con esperienza le tecniche antiche alla tecnologia offerta dalle moderne macchine per la lavorazione del marmo.
Oggi con le sue maestranze qualificate realizza manufatti monumentali con rivestimenti pregiati, assistenza tecnica e amministrativa per l’acquisto, lo studio e la realizzazione di manufatti sepolcrali.
L’azienda è specializzata nel restauro artistico e nella realizzazione di manufatti in marmo lavorati artigianalmente, nel settore delle costruzioni di cappelle, edicole, sarcofagi, tombe di qualsiasi tipo, monumenti e lapidi, lavorazioni di marmi di qualsiasi genere nazionali ed Esteri, opportunatamente autorizzata dal Comune di Roma e dall’AMA ad eseguire i lavori nei Cimiteri comunali del Verano, Flaminio, Laurentino, nonché nei Cimiteri suburbani di pertinenza Comunale, ed altresì autorizzata dal Comune di Fiumicino per tutti i cimiteri del comune di Fiumicino.

Esperienze lavorative della ditta Grammaroli marmi e restauri a Roma 
Sotto i nostri capannoni sono passati i marmi dell’altare della patria, della fontana delle Naiadi, del ministero della Giustizia, del ministero dell’istruzione, dell’Università la Sapienza ma non viviamo nel ricordo e nell’autocelebrazione.
Oggi tra i nostri clienti vantiamo il Vaticano, il Comune di Roma, molti istituti sacri e religiosi, confraternite e fondazioni. Molti dei nostri interventi di edilizia e restauro sono quotidianamente sotto i vostri occhi e siamo orgogliosi del fatto che non ve ne accorgiate perchè un buon lavoro sa distinguersi senza farsi notare!

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Pubblicazioni su di noi - Grammaroli marmi e restauri a Roma

marmi e restauri a Roma

COPERTINA SAN LORENZO

Il fervore rivoluzionario che accendeva gli animi di migliaia d’italiani medi, contagiò anche Sua Santità Pio IX, che nell’entusiasmo riformista, avviò scavi archeologici, fondò istituzioni di tutela artistica e intraprese grandi opere di restauro nelle antiche basiliche paleocristiane.

Grande intuizione fu l’adesione alla modernizzazione del sistema dei trasporti che in quegli anni stava trasformando il panorama delle campagne italiane e soprattutto il concetto di distanza stessa. Nascevano infatti in quegli anni le prime strade ferrate. Prima su tutte la borbonica Napoli – Portici, ben presto seguita dalla papalina Roma – Velletri. L’idea stessa di collegare centri rurali e popolosi in modo diretto alla futura capitale era assolutamente vincente! Manodopera. Merci. Bestiame. Armamenti. Tutto a portata di rotaia. Purtroppo l’urgenza degli eventi storici non diede modo all’anziano pontefice di portare a termine il suo progetto ferroviario, che, seguendo i tracciati delle antiche strade consolari, vedeva assi di collegamento allineate approssimativamente con i quattro punti cardinali. La breccia di Porta Pia avrebbe di lì a poco interrotto l’operosità urbanistica di quell’ultimo Papa re che fece in tempo a vedere inaugurate solo alcune linee di corriere a cavallo su rotaia e la lenta linea Roma Orte. Arriviamo così al 1871, anno del varo del primo Piano Regolatore di Roma Capitale, che,  affiancando discutibili abbattimenti e stravolgimenti alla Roma dei Papi, a grandi prove di modernità e lungimiranza, recuperò alcune opere di riassetto urbano intraprese proprio da quel Pio IX tanto duramente combattuto e spodestato. Tra esse la realizzazione della linea ferroviaria Roma – Tivoli che andava a sostituire l’antica e lenta corriera a cavallo.

Pochi chilometri fondamentali che terminando la loro corsa fuori Pota Tiburtina, precisamente nel grande Piazzale sterrato fronteggiante la storica Basilica di S. Lorenzo, sancivano la fine di un’era fatta di cavalli, assalti e diligenze ma soprattutto contribuivano ad agevolare il trasporto del travertino nella capitale e facilitavano l’arrivo di maestranze pronte a svolgere lavori specializzati e opere di manovalanza.

A breve intorno alla storica stazione del Verano, – poco più di un binario morto in una radura e che a furia di spostamenti troverà la sua definitiva sistemazione poco dentro le mura, prendendo in seguito il nome di Termini-  sorse un ampio borgo di artigiani marmisti che sfruttando l’enorme facilitazione dell’infaticabile ferrovia, fecero del desolato Campo Santo di Roma, il monumentale Cimitero Verano di oggi.

Grandi artisti e grandi artigiani dalla moderna visione imprenditoriale fecero loro ampi spazi di verde e sottraendo terreno alle immense vigne Cantoni e Quatrini, edificarono le loro botteghe con annesse abitazioni o addirittura palazzi signorili, intorno ai quali la campagna circostante a poco a poco cedette il posto all’edilizia popolare che nel periodo Umbertino ebbe il suo picco di operosità.

Ecco quindi alloggiati “gomito a gomito” gli operai impiegati nell’edilizia e nel settore cimiteriale  ed i primi rappresentanti della media borghesia nelle loro abitazioni private.

Grandi marmi e grandi marmisti: Biondi, Ricci, Frioli, Calizza, Rossi…

Dei Rossi si ricorda l’impegno nell’edilizia monumentale quale i grandi ministeri e soprattutto quell’opera colossale consistente nel ricovero e la messa a punto degli enormi blocchi in botticino che provenendo già lavorati dalla sapiente manovalanza bresciana andarono a comporre quella montagna di calcare bianco che oggi conosciamo con il nome di Altare Della Patria.

Importanti nomi dell’architettura quali Koch e Sacconi varcarono il grande cancello che si apriva ad inizio secolo davanti alla campagna che faceva da quinta all’odierna via dei Reti, arteria spartiacque tra la zona artigiana dei marmisti e la zona popolare abitativa della cosiddetta parte alta. Un binario che asserviva al trasporto dei blocchi all’interno del cantiere medesimo, sottolineava con severe linee d’acciaio questa demarcazione netta che ancora oggi spacca in due la mattiniera S. Lorenzo dei marmisti e la nottambula S. Lorenzo dei locali.

Ancora oggi la nostra soglia si apre in via dei Reti come all’ora. Straordinarie opere, noti architetti e grandi gestioni. Sotto i nostri capannoni, alla guida dei quali dal 1906 si sono alternate le famiglie Rossi, Furioli e Grammaroli, abbiamo visto transitare piccoli e grandi tasselli che hanno fatto di Roma la capitale che conosciamo. Palazzi del potere, chiese, edifici storici ancora oggi come allora ci occupiamo degli interventi cimiteriali e artistici per la nostra città e non solo.

Con l’edilizia monumentale e quel restauro d’arte che nel 2010 ci ha portato ad essere premiati come artigiani dell’anno, e nel 2012 come maestri dell’economia, cerchiamo di mantenere viva quella tradizione artigiana che dentro le nostre anime sopravive come in un’oasi da oltre cento anni. 

   Augusto Proietti Bernardini, classe 1859, tutto cominciò da lui. Era un uomo minuto, un uomo qualunque dalle umilissime origini popolari. Figlio di genitori anticlericali imprigionati e morti da reclusi nelle carceri nuove, crebbe la sua vita da orfano, insieme alla nonna ed alla sorella. Oggi diremmo un figlio sfortunato dei suoi tempi.

Nel 1890 dalla stradone di San Giovanni, in pieno quartiere Esquilino, per ristrettezze economiche, si trasferì nel più popolare quartiere di San Lorenzo con la moglie e la numerosa prole.

Di professione facocchio, non ebbe difficoltà  ad inserirsi nella realtà artigiana  del quartiere, impiantò la propria bottega in Via dei Latini e lavorando per qualche anno su carrozze e carretti, ignorò che la svolta era appena dietro l’angolo.

L’ultimo decennio dell’800 vide il primo grande tentativo di risanamento urbano e sociale del quartiere, un progetto pilota che influenzò il più ampio e ambizioso piano di bonifica intrapreso dall’ Ing Edoardo Talamo qualche anno più tardi.

Tali operazioni miravano ad un riassetto urbano, puntando in modo sottile ad un riassetto morale, cambiamento che lentamente avvenne e lasciò negli abitanti del quartiere una coscienza diversa del loro peso sociale all’interno della vita cittadina. Aumentò l’alfabetizzazione, calò la disoccupazione, diminuì la mortalità infantile e si ridusse il numero di occupanti medi per vano ad abitazione.

In questo clima di entusiasmo e fermento, Augusto, come molti coetanei, si improvvisò piccolo imprenditore e fiutando il grande business che alimentava gran parte delle officine della San Lorenzo bassa, fece il suo piccolo grande salto: divenne fioraio.

C’è da dire che la trasformazione di Roma da grande borgo a Roma capitale, aveva portato una nuova classe di ricchi, formata da  costruttori, politici, uomini di spettacolo, ansiosi di avere ricche residenze cittadine e, perché no, cimiteriali.

Il fermento edilizio della città umbertina, si trasferì quindi anche presso “l’arberi pizzuti” tanto cari ai vecchi romani ed assai meno tranquilli e romantici di qualche lustro prima.

La cappella gentilizia prese il posto della più modesta tomba di famiglia ed i viali adorni di cipressi cominciarono a rivestirsi di fiori variopinti in una lotta incessante all’ostentazione ed allo sfarzo.

Erano anni bui e bastava poco: un vecchio carretto e tanta forza nelle gambe per far su e giù tutto il giorno lungo la nuova Via Tiburtina. A giudicar dal fatto che di lì a poco avrebbe avviato anche un banco fisso sotto i portici di piazza Vittorio, il commercio non dovette andar male al nostro Augusto, tuttavia sarà l’arrivo della figlia Enrichetta, ex allieva di Maria Montessori, a dar un taglio imprenditoriale al lascito paterno.

Arrivò il ‘900, insieme ad esso il matrimonio con  Edmondo Grammaroli ed il fiorire dell’attività di famiglia: in pochi anni i banchi di fiori e di oggettistica sacra divennero tre, entrammo così a pieno titolo nel settore che tutt’ora contraddistingue per molti il nostro marchio e  la nostra famiglia.

Leggendario il suo fiuto per gli affari. Si ricorda l’operazione commerciale pianificata con la Neri in previsione dell’alta affluenza di pellegrini in visita alla Città Santa per il Giubileo del 1950: Si commercializzarono in quell’anno sui banchi di famiglia fantastiche bottiglie sigillate e perfettamente vuote, con tanto di etichetta recitante “Aria di Roma”.

In vecchiaia non resisteva dal sorridere quando qualcuno commentava qualcosa con il detto romano : “D’aria nun se campa” e lei replicava sorniona: “Ma ne sei proprio, proprio sicuro?”

Dalla grande crisi del dopoguerra che condusse alla necessità di inventiva per sopperire alla carenza stessa dell’offerta e della materia prima, Alvaro Grammaroli, uno dei figli, approfondì l’impegno in uno dei settori marginali di quella che stava divenendo una vera e propria impresa di famiglia: il settore lapideo.

Con la passione per il restauro ed un’esperienza da lucidatore di mobili, si propose nel settore in modo alternativo per operazioni di ripristino attente e curate nel rispetto di una ricerca filologica ante litteram. Il suo aiutante sul campo era il figlio, il piccolo Gianni Grammaroli.

Il boom economico vedrà il prematuro ritiro di Alvaro dal lavoro a causa dell’aggravarsi di un già compromesso quadro clinico ereditato da una lunga prigionia di guerra e la crescita come artigiano marmista del giovane Gianni, che di lì a breve, verrà affiancato dal fratello Mauro di qualche anno più giovane.

Trascorreranno serenamente tutti gli anni ’60 che li vedranno impegnati nel carpire i segreti di quei colleghi più anziani dei quali non disdegneranno mai di circondarsi. Gli anni successivi vedranno i frutti migliori della carriera di imprenditori dei fratelli Grammaroli: nei tardi anni ’70 verrà assorbita l’antica ditta Ricci, mentre metteranno a punto negli anni ‘80 uno dei frutti migliori della loro carriera: l’acquisizione della ditta Furioli con annesso stabilimento di produzione.

Ancora oggi, proseguendo nella tradizione, paghiamo un debito di riconoscenza a queste ottime intuizioni.

2013, stessa gestione, stesso stabilimento, stesso entusiasmo e dopo oltre un secolo dall’inizio della nostra avventura, con un lavoro minuzioso di scavo e di ricerca storica, cerchiamo di mantenere vive le tradizioni di famiglia e del nostro settore di marmi e restauri a Roma.

Intorno a noi le serrande si abbassano in un incessante sferragliare di lamiere arrese al tempo che passa. Noi no. Lottiamo la ruggine che blocca i lucchetti. Delle nostre polveri di silice, facciamo lenti per vedere oltre, per capire che spesso la salvezza di un incerto futuro, risiede in un passato dalle solide tradizioni.

Impegnati in associazioni di tutela che salvaguardino il nostro delicato patrimonio culturale dalla dispersione e dall’estinzione, cerchiamo di riscoprire il senso antico di quel termine prezioso e abusato che nella sua essenzialità rimane per molti spiazzante, misterioso e commovente: bottega.

Nella bottega si alternano maestranze dalle più disparate conoscenze tecniche, veri custodi di arti antiche dai nomi strani e misteriosi, che fanno scuola alle più giovani maestranze che li circondano, nella speranza che la sapienza di un intero settore si tramandi e si rinnovi, continuando a garantire quel miracolo unico per dimensione e portata, che si chiama scuola artigiana romana.

I nostri maestri marmorari hanno lavorato alle dipendenze di papi ed imperatori, facendo di Roma il capolavoro eterno che tutto il mondo ci invidia, ebbene noi inseguiamo il sogno di contribuire con la nostra costanza a far sì che tutto questo non vada perduto.

Siamo certi che il made in Rome che per secoli ha attratto i viaggiatori del “grand tour”, se ben esposto nelle nostre vetrine possa essere quel monumento in più ormai assente in molte altre capitali europee.

Grammaroli marmi e restauri a Roma

marmi e restauri a Roma

COPERTINA ARTIGIANI

Titolo di studio conseguito? Diploma di marmista

Era il 1946 quando mia madre vide un fantasma sulla porta. Aveva 33 anni ma con i suoi 50 chili scarsi ne dimostrava cento. Quel fantasma era quel che restava di mio padre. Quel che la guerra ci rendeva. Nessuno pensava sarebbe tornato ed eccolo lì. Immobile sulla soglia, col suo zaino afflosciato su se stesso, lo stesso che un tempo aveva contenuto un carico di speranze per il futuro. Eccolo lì, con gli scarponi bucati e gli occhi stanchi di chi ha visto troppo.

Non ero ancora nato, eppure quel giorno avrebbe cambiato la mia vita.

Mi sarei chiamato Gianni ed un destino beffardo decise di sintetizzare il mio futuro nella mia data di nascita: due novembre quarantasette! Avevo indubbiamente i numeri e rimanevano poche cose da fare: o tentare la fortuna giocandoli al lotto o assecondare la tanta determinazione delle stelle.

Come per molti coetanei, mio padre, Alvaro, scelse per me e scelse per la seconda: sarei stato marmista.

La nostra famiglia era da sempre vicina, in un certo qual modo, agli ambienti cimiteriali, quindi non mi sembró poi così strano, intorno ai sette, otto anni iniziare la mia gavetta durante il periodo della commemorazione dei defunti insieme a lui.

Ricordo che in quel periodo giocavo a fare il piccolo restauratore: lo seguivo passo passo per i viali alberati tra una tomba e l’altra del Verano facendo dondolare il mio secchio degli attrezzi come fosse un secchiello per la sabbia, attendendo che qualcuno avesse bisogno di noi. Sarà stato al massimo il 1955 e temo che a quei tempi fossimo più noi ad aver bisogno di loro…

Il mio secchiello dondolò per quei viali per qualche anno, non molti in realtà, di lì a poco infatti cominciò il mio vero apprendistato come  garzone di bottega. Si cresceva in fretta. Senza troppe domande.

Era così il dopoguerra. Non si parlava dei problemi del lavoro giovanile, dell’occupazione, della fame o della guerra, mai.

I problemi erano tutti intorno, erano semplicemente la quotidianità. La mattina, alla fermata dell’autobus, il più vecchio avrà avuto vent’anni ed era normale. Come era normale arrivare tutti insieme correndo verso la fermata perché entro le otto il biglietto del bus costava 5 lire, dopo il doppio e arrivare per primi alla tabella era la nostra gara da adolescenti. Non ambivamo ad altro.

Avevamo tutti calzoni troppo grandi, direttamente proporzionali ai portapranzi colmi di pasta che portavamo nelle buste. Un profumo su quegli autobus la mattina…

Si andava da ragazzini verso la vita adulta ma non ci si chiedeva neanche quale fosse l’alternativa. Forse c’era la consapevolezza che lavorare in realtà fosse già la nostra grande alternativa. Era il 1959 e l’aria del boom si mescolava ancora a quella della povertà residua sporcandosi.

Non sapevamo ancora che di lì a poco saremmo passati ad essere da “Poveri ma belli” a “poveri ma con la televisione”.

Non avevo purtroppo la maturità per comprenderlo ma in quella precoce fase della mia vita stavo per conoscere un mondo in via d’estinzione, dove le botteghe erano ancora botteghe nel senso storico del termine: luoghi dove si va per imparare. Ormai nessuno lo ricorda più ma erano luoghi di scambio di conoscenze e saperi antichi, di segreti tramandati e custoditi da generazioni forse per secoli.

La maturità scolastica la conseguii invece con regolare diploma da marmista presso la scuola d’arte e mestieri. Fu un percorso parallelo a quello lavorativo e ripensare oggi a quanto fossero diverse le due esperienze mi lascia incredulo. La scuola era asettica, inodore e formale, mentre nei laboratori si respirava ancora un’atmosfera antica, fatta di ritualità ormai scomparse. La mattina, anche in estate, “il ragazzetto di bottega” accendeva le stufe: quella del laboratorio sulla quale si preparava  come prima cosa la misturina – l’antico mastice tradizionale dei marmisti – poi quella dello spogliatoio, dove si mettevano in caldo i porta-pranzo che regolarmente prima delle 12 erano già tutti vuoti.

Il rumore del motore dei macchinari – come i macchinari d’altronde – era molto limitato ma il ticchettio era continuo. Era il nostro sottofondo. La nostra radio. Il più giovane preparava battendo sulla martellina tutti i tasselli per i mosaici – e quanti ne ho preparati! – l’incisore realizzava le epigrafi, il mastro bucava manualmente il granito battendo con un mazzuolo su di un trapano a violino. Un concerto senza fine a volte intervallato da qualche glu glu. Eh già. Perchè non si lavorava mai a gola secca. Ogni mastro occupava, diremmo oggi, una postazione, un banco, ed ogni banco, era provvisto di fiasco di vino.

Uno dei primi compiti di ogni nuovo arrivato era proprio quello di far in modo che queste postazioni non fossero mai sguarnite dell’occorrente… Detto occorrente, una sorta di benzina nei laboratori dell’epoca, era di facile reperibilità: nel quartiere c’erano infatti più vini ed oli che artigiani ma i nostri mastri preferivano l’Osteria der Galletto su Piazzale del Verano, dove Rita istruiva i nuovi arrivati circa il tipo di combustibile adatto ad ogni mastro: rosso, bianco, romanella e così via.

Ad ugole calde, era tutto uno sferragliare di ferri scintillanti ed inevitabilmente già a metà giornata ci si trovava a correre lungo lo sterrato della Salita della Ranocchia con in mano un bel mazzetto di scalpelli e punte da arrotare. Verso la cima, un comignolo sempre fumante indicava come un’insegna la bottega di Pippo, il “mastro chiavaro”, per tutti noi più di un mastro, un vero e proprio mago!

Nella sua bottega grigia e fumosa ad attendere i visitatori fuoco ed un calderone per temperare l’acciaio. Per rendere caratteristica l’atmosfera, mancavano solo alambicchi e scope danzanti! Conserviamo in laboratorio qualche suo utensile forgiato a mano che ancora conserva la tempera originale.

Gli scultori del nostro settore facevano la fila per i ferri dell’ultimo mastro forgiatore e noi, a nostra volta, facevamo la fila per ammirare gli ultimi grandi scultori. Lo stile del maestro Sciancalepore fece senz’altro scuola sull’ultima leva di scultori e  mi capitava di ricordarlo spesso con l’amico Livio Scatolini ed ora mi ritrovo a ricordare anche Livio…

Quanti amici e quante conoscenze andate perdute con loro.

Figli di una generazione silenziosa, rincorrevano tutti lo stesso ideale: avvicinare l’artigianato all’arte; nel tentativo di farli toccare, abbassavano lo sguardo e lavoravano. E lavoravano. Senza fronzoli.

Oggi vedo i caschetti a norma per la 626 e sorridendo ripenso alle pieghe del cappello di carta che per prima cosa mi insegnò a preparare Mastro Primo. Semplicemente perché non si stava a bottega senza cappello di giornale. Tutto qui.

Mastro Primo! Quanta polvere sul suo cappello! Insieme a mastro Gino, fu forse l’ultimo dei mastri, quando la parola mastro era ancora la contrazione di “maestro”.

E sapevate che stuccare può essere un’arte? Avreste dovuto vedere Fernando! Lui era capo cucchiara. Con il “cucchiarotto” riusciva a modellare qualsiasi superficie. Fernando, Fernando.

Ricordo di quando a bottega arrivó il primo trapano elettrico. Secondo lui non ne avevamo bisogno. <Tecnologie inutili!>, diceva. La loro grandezza era in questo: riuscire in opere a volte ciclopiche con mezzi ad oggi risibili.

E verrebbe da ridere anche a voi immaginando ragazzini spingere carretti di legno carichi di marmi per i vialetti del Verano. Eppure erano questi i nostri mezzi ma nessuno avvertiva la stretta necessità di un cambiamento imminente in quelli che erano i nostri metodi di lavorazione. Erano quelli da sempre. Li avevamo trovati ed erano funzionali. Quando le prime Ape della Piaggio cominciarono a prendere il posto dei nostri carretti da fioraio, fu esclusivamente per l’apertura del “nuovo” Cimitero di Prima Porta.

La nostra era una forma di arretratezza solamente apparente: il lavoro ed il tempo erano semplicemente correlati in modo diverso. Non esisteva il concetto di lavorare in fretta. Non credo di aver mai sentito in quegli anni la parola ansia.

Vivevamo la pressione della consegna esclusivamente durante il periodo della ricorrenza dei defunti, quando avevamo una strana tradizione per allentare la tensione: lavorare tra i viali del Cimitero ad oltranza, anche dopo il tramonto; non avevamo torce elettriche ed era bellissimo entrare con i nostri carretti, tutti in fila, illuminati solamente dalla luce delle nostre candele.

Di giorno, invece lo stress lavorativo era alleviato dalle partite a calcio consumate tra noi ragazzi all’ora di pranzo tra i banchi di fiori e le poche auto in Piazzale del Verano. A differenza di oggi il nostro era un ambiente giovane con un continuo ricambio generazionale.

Sembra incredibile che tutto questo sia così vicino nel tempo ma ricordandolo appaia così lontano: i carri, le candele i trapani a mano.

Tutto ciò sta a dimostrare che la tradizione della scuola marmoraria romana si è mantenuta pressoché intatta con le sue tecniche e tradizioni almeno fino a circa 50 anni fa.

La graduale trasformazione del nostro settore e dei suoi ritmi è secondo me imputabile all’introduzione dei prodotti chimici nell’industria del marmo. Dal 1960 in poi solventi, smalti e soprattutto mastici s’insinuarono tra la diffidenza degli anziani, conquistarono la fiducia delle nuove leve e finirono per prendere definitivamente il sopravvento sugli equivalenti naturali spodestandoli. Sparirono così la misturina e le vernici preparate ancora mescolando terre colorate e resine; anche la profumata gemma di pino lasciò spazio al diffusissimo ed abusato acetone. Tutto ciò stravolse inevitabilmente ritmi e modi di lavorazione consolidati. Fu una rivoluzione annunciata. Per avere un’idea della portata del cambiamento basti pensare che il cemento, prima di essere considerato modellabile, ha bisogno di 24, 48 ore di asciugatura – il suo tempo di stagionatura è fissato a 28 gg -, i mastici sono bicomponenti e se ben dosati permettono un fissaggio pressoché immediato. In un certo senso quei giorni furono l’inizio della fine del nostro artigianato classico.

Oggi è importante che l’artigianato coniughi tradizione e tecnologia ma è fondamentale che non dimentichi mai le tradizioni che l’hanno reso grande, che l’hanno reso prossimo all’arte.

Gianni Grammaroli: marmi e restauri a Roma

12 02 2017