Grammaroli marmi Roma la storia di un laboratorio

La storia di un laboratorio

GRAMMAROLI MARMI dal 1906

Grammaroli marmi Roma – Le truppe rivoluzionarie espugnavano i bastioni della Città eterna relegando all’interno delle mura Leonine Sua Santità Pio IX, prigioniero di se stesso. Da quel giorno, la sorte e l’aspetto della Città eterna cambieranno per sempre. Al Piano Regolatore per Roma Capitale faranno seguito grandi e controverse demolizioni necessarie all’urbanizzazione di nuovi quartieri per la costruzione di nuove arterie e moderni tracciati ferroviari. Dopo l’ultimazione delle ferrovie papaline fra queste la Roma-Frascati, si procederà alla realizzazione della Roma-Tivoli, un breve tracciato che segnerà indelebilmente le sorti del quadrante est della città, trasformandola in un grande e operoso borgo operaio con le sue ciminiere fumanti, i suoi fabbricati popolari e popolosi, le sue fabbriche e i suoi cantieri artigiani.

Una modesta stazione troverà posto nel piazzale antistante l’antica Basilica Laurenziana a due passi da quel Cimitero del Verano, che tanto influenzerà lo sviluppo e la trasformazione. Voluta per favorire l’arrivo di manodopera dalle campagne circostanti, la nuova ferrovia garantirà soprattutto un collegamento veloce e diretto con le cave di travertino, presso Bagni di Tivoli, sancendo così la destinazione marmoraria di quella zona di campagna a ridosso del Cimitero che prenderà così il nome di San Lorenzo. Grandi artigiani dalla moderna visione imprenditoriale, quali Biondi, Ricci, Calizza e Rossi fecero loro gli ampi spazi di verde sottraendo terreno alle immense vigne ed edificando le loro botteghe con annesse abitazioni, intorno alle quali poco a poco crebbe l’edilizia popolare. Ecco quindi alloggiati “gomito a gomito” gli operai impiegati nell’edilizia e nel settore cimiteriale ed i primi rappresentanti della media borghesia nelle loro abitazioni private.

Dei Rossi si ricorda l’impegno nell’edilizia monumentale quale i grandi ministeri e soprattutto quell’opera colossale consistente nel ricovero e la messa a punto degli enormi blocchi in botticino che provenendo già lavorati dalla sapiente manovalanza bresciana andarono a comporre quella montagna di calcare bianco che oggi conosciamo con il nome di Altare Della Patria
Importanti nomi dell’architettura quali Koch e Sacconi varcarono il grande cancello che si apriva a inizio secolo davanti alla campagna che faceva da quinta all’odierna via dei Reti, arteria spartiacque tra la zona artigiana dei marmisti e la zona popolare abitativa della cosiddetta parte alta. Un binario che asserviva al trasporto dei blocchi all’interno del cantiere medesimo sottolineava con severe linee d’acciaio questa demarcazione netta che ancora oggi spacca in due la mattiniera S. Lorenzo dei marmisti e la nottambula S. Lorenzo dei locali.

Ancora oggi come allora, la nostra soglia si apre in via dei Reti. Sotto i nostri capannoni, alla guida dei quali si sono alternate ininterrottamente dal 1906 le famiglie Rossi, Furioli e Grammaroli, abbiamo visto transitare piccoli e grandi tasselli che hanno fatto di Roma la capitale che conosciamo. Palazzi del potere, chiese, edifici storici, ed ancora oggi come allora, ci occupiamo degli interventi cimiteriali e artistici per la nostra città.

Grammaroli marmi Roma

Uno dei primi stabilimenti a vapore

I primi artigiani s’insediano presso il Verano

Il fervore rivoluzionario che accendeva l’animo in migliaia di italiani, contagiò anche Sua Santità Pio IX, che nell’entusiasmo riformista, avviò scavi archeologici, fondò istituzioni di tutela artistica e intraprese grandi opere di restauro nelle antiche basiliche paleocristiane.

Grande intuizione fu l’adesione alla modernizzazione del sistema dei trasporti che in quegli anni stava trasformando il panorama delle campagne italiane e soprattutto il concetto di distanza stessa. Nascevano infatti in quegli anni le prime strade ferrate. Prima su tutte la borbonica Napoli – Portici, ben presto seguita dalla papalina Roma – Velletri. Fu presto lampante che il concetto di collegare centri rurali e popolosi in modo diretto alla futura capitale era assolutamente vincente. Manodopera. Merci. Bestiame. Armamenti. Tutto a portata di rotaia. Purtroppo l’urgenza degli eventi storici non diede modo all’anziano pontefice di portare a termine il suo progetto, che, seguendo i tracciati delle antiche strade consolari, avrebbe visto assi di collegamento ferroviario allineate approssimativamente con i quattro punti cardinali.

La breccia di Porta Pia avrebbe di lì a poco interrotto l’operosità di quell’ultimo Papa re che fece in tempo a vedere inaugurate solamente alcune linee di corriere a cavallo su rotaia; bisognerà attendere il primo Piano Regolatore ipotizzato per Roma Capitale nel 1871, per vedere attuati tanti progetti paradossalmente immaginati da quel Pio IX tanto aspramente combattuto e duramente spodestato. Tra esse la realizzazione della linea ferroviaria Roma – Tivoli, che andava a sostituire l’antica e lenta corriera a cavallo. Il progetto della stessa, risaliva al 1867.

Pochi chilometri fondamentali che terminando la loro corsa fuori Porta Tiburtina, precisamente nel grande Piazzale sterrato fronteggiante la storica Basilica di S. Lorenzo, sancivano la fine di un’era fatta di cavalli, assalti e diligenze ma soprattutto contribuivano ad agevolare il trasporto del travertino nella capitale e facilitavano l’arrivo di maestranze pronte a svolgere lavori specializzati e opere di manovalanza.

A breve intorno alla storica stazione del Verano, – poco più di un binario morto in una radura e che a furia di spostamenti troverà la sua definitiva sistemazione presso l’antico dazio di Porta Tiburtina –  sorse un ampio borgo di artigiani marmisti che sfruttando l’enorme facilitazione dell’infaticabile ferrovia, fecero del desolato Campo Santo di Roma, il monumentale Cimitero Verano di oggi.

Grandi artisti e grandi artigiani dalla moderna visione imprenditoriale sottrassero ampi spazi di verde alle immense vigne Cantoni, Quatrini e D’Antoni, edificandovi le loro botteghe con annesse abitazioni. Cominciarono così a sorgere palazzotti dall’aspetto rustico ma signorile, intorno ai quali la campagna circostante a poco a poco cedette il posto alla scadente edilizia popolare che andò a soddisfare le povere esigenze abitative di quella classe emergente che offriva manovalanza per soddisfare le sempre crescenti richieste di manodopera di una Roma in espansione.

Lo sviluppo irrefrenabile proseguì fin quando i due volti del commercio si espansero a tal punto da finire per toccarsi ed i rappresentanti del primo proletariato urbano, si ritrovarono alloggiati fianco a fianco  agli esponenti della media borghesia di zona, residenti nelle loro belle villette, alcune ancora distinguibili dai nomi incisi sulle sobrie facciate inizio secolo.

Frioli, Biondi, Ricci, questi solo alcuni nomi delle prime dinastie di quegli “artigiani del vapore” che cavalcando le prime risorse tecnologiche offerte dalla crescente febbre tecnologica di fine ‘800 mostrarono ai colleghi le possibilità di un settore ancora in espansione. Le segherie con le loro ciminiere fumanti ed il rombo assordante delle loro enormi meccaniche dalla trasmissione a puleggia, sfidarono così la secolare egemonia delle piccole botteghe, caratterizzate dal timido vociare metallico degli scalpelli. La prima e la più grande di esse, fu quella inaugurata da Leopoldo Frioli nel 1889 lungo Via dei Reti, all’epoca poco più di un tracciato sterrato tra sentieri poderali, quegli stessi viottoli presenti nella moderna toponomastica che vedranno fiancheggiarsi e coesistere nei decenni a venire modernità e tradizione, sfidando mode e cambiamenti.

Battersi contro i primi stabilimenti a vapore, sarà come per gli indiani combattere le prime ferrovie: una sconfitta annunciata; non avranno certo vita facile quelle famiglie che da generazioni si tramandavano un’arte da custodire esclusivamente tra le mani, come i Rossi, maestri scalpellini, ora come pochi, all’epoca come tanti.

Il vecchio Cesare, prima di morire nel 1892, tramandò in bottega le sue conoscenze ai figli: Cosimo ed Armando; lo stesso fece il fratello con i propri eredi: Angelo ed Augusto, proprio come si sarebbe fatto in una bottega d’arte ai tempi del Rinascimento. Ancora oggi possiamo trovare traccia del loro impegno tra i viali della zona più antica del Cimitero Monumentale di Roma perché proprio in quegli anni le semplici croci in ghisa offerte in vendita dai “crociari” e fuse nelle tante fonderie della zona, cominciarono a lasciar spazio agli equivalenti in marmo che, da elemento di decoro per i palazzi del potere, assunse gradualmente l’attuale connotato di corredo eterno che tutt’ora gli riconosciamo.

L’elettrificazione dei laboratori, l’aumento di offerta di manovalanza e la facilità di reperimento dei materiali permisero un veloce abbattimento del costo del prodotto finito ed un conseguente aumento dell’offerta. Nel giro di pochi anni, a cavallo del ‘900, si sviluppa una rete completamente autonoma, sufficiente al mantenimento dell’intero indotto produttivo del Cimitero del Verano ed in parte sufficiente a soddisfare le richieste capitoline.

Mastri ferrai, vetrai, muratori, carpentieri, fornaciai, tornitori, fonditori, pittori, mosaicisti, scultori, vagando per le vie di un quartiere brulicante e vitale, avreste potuto trovare un universo di saperi e professionalità ormai in parte scomparsi, accomunati da un unico denominatore: l’artigianato, l’arte del saper fare.

Grammaroli marmi Roma

Laboratorio Rossi negli anni 30

I fratelli Rossi: Costruttori di Roma

Durante quella che viene generalmente chiamata belle epoque, Roma visse una delle sue stagioni più floride.

La Grande Guerra non era esplosa, il potere totalitario ed accentratore del Papa era stato pesantemente compromesso dall’Unità ed un benessere diffuso si respirava grazie ai grandi flussi economici portati dalla trasformazione da città giardino in capitale d’Italia.

Abile traghettatore di una grande Roma ancora in fasce, fu senza dubbio un sindaco la cui memoria rimase per tanti lustri cara ai romani: Ernesto Nathan.

Egli fu tra i primi ad intuire che la vecchia città aveva bisogno di essere rappresentata sì, da grandi opere degne di una capitale, ma anche da servizi e di infrastrutture.

Durante il suo mandato vide infatti la luce il piano regolatore che nel 1909 regolarizzò definitivamente l’uso e la tassazione dei terreni fuori porta.

Dal 1907 al 1913, anni di inizio e termine del suo mandato, si occupò di migliorare molti aspetti di una capitale in divenire, lavorando a braccetto con i grandi architetti del suo tempo. Insieme alle piccole grandi opere come la “Casa dei bambini” di Maria Montessori, videro la luce linee ferro-tramviarie, nuove arterie dalla concezione moderna e quartieri fuori porta concepiti con una inedita visione degli spazi e della condivisione.

Il motore di questa grande trasformazione urbanistica fu la categoria degli artigiani, coinvolta in blocco nell’immensa macchina messa in movimento dall’amministrazione capitolina.

I quartieri ubicati sulle vie dei grandi traffici commerciali, furono quelli in cui le piccole industrie e l’artigianato, fiorirono maggiormente; alcune zone videro cambiare la propria connotazione in funzione del gran fermento intorno ai cantieri disseminati dentro e fuori le mura.

L’approssimarsi della commemorazione dei cinquant’anni dell’Unità d’Italia, aumentò questa febbre, tutt’altro che fuori controllo, la quale vide alternarsi tutte le maestranze presenti in città, concorrendo al fine comune del bello come ideale per la comunità.

Le ultime corporazioni ancora operanti prestarono i loro migliori maestri e le loro manovalanze per terminare le opere pubbliche incompiute, come l’Altare della Patria o il Palazzo di Giustizia ma ci furono anche quegli imprenditori che coraggiosamente, remando contro corrente, decisero di operare in proprio, contribuendo involontariamente alla nascita della moderna imprenditoria, libera dal vincolo associazionistico e corporativo tanto caro ad artisti ed artigiani dal Rinascimento fino a tutto il XIX secolo.

Uno di questi impavidi pionieri fu Cosimo Rossi, già appartenente ad una famiglia di costruttori e scalpellini; egli intuì infatti che l’ampio terreno a vigna di sua proprietà nei pressi della ferrovia Roma Tivoli in San Lorenzo, poteva fruttare molto di più con il minimo dell’investimento.

Convertì dapprima la coltivazione in un grande piazzale per lo stoccaggio ad uso di marmisti e costruttori, richiese licenza per una bottega di scalpellino e successivamente, osando oltremodo, stipulò un contratto per il sub appalto dei lavori di completamento del Vittoriano. Dopo averlo cinto da mura, dotò il suo appezzamento di macchine e capannoni per la lavorazione dei grandi blocchi di botticino che, grazie ad una apposita rotaia, potevano giungere direttamente al suo cantiere d’avanguardia. E d’avanguardia fu considerato ancora per molto se lo si vide ancora collaborare con l’amministrazione Nathan  per i lavori di completamento del Palazzo di Giustizia. Purtroppo non furono molte altre le opere che Cosimo vide completate all’interno del suo stabilimento. Come si trattasse di un accordo preso col destino, il mandato terreno del vecchio Rossi, terminò poco dopo quello del sindaco tanto caro ai romani: si spense a Roma il 26 marzo del 1915, lasciando in eredità un avvenire in parte ancora da scrivere.

La rotta era certo già designata ma occorsero alcuni anni di maturazione a Roberto e Cesare Rossi per definire quello che sarebbe stato il futuro dell’impresa. Dopo un incerto periodo votato all’edilizia, i due fratelli definiscono la loro strategia: nel 1930 arricchiscono il laboratorio di un nuovo grande capannone per la lavorazione dei blocchi, di uffici e di aree coperte per la tornitura.

Grazie a questo assetto e ad un organico di professionisti del settore ai quali furono affidati mezzi d’avanguardia, l’impresa partecipò alle più prestigiose gare d’appalto proposte durante il ventennio fascista per i grandi cantieri aperti per le opere di rinnovamento urbano.

In quegli anni la concorrenza di settore non era poi molta e tra appalti e sub appalti, l’impresa Fratelli Rossi, si trovò, letteralmente ad edificare la Nuova Roma ipotizzata da Mussolini con l’ausilio delle collaborazioni dei preziosi Piacentini, Libera, Brasini, ai quali spettava l’arduo compito di conciliare la megalomania del regime con la praticità di una città da razionalizzare e da vivere.

Non a caso, razionalità e razionalismo diverranno sinonimi di un’architettura mai troppo lodata che passò, pietra dopo pietra all’interno di quei capannoni che i due fratelli Rossi, con tanta lungimiranza, vollero proiettare verso il futuro.

Tra gli appalti diretti tra il Governatorato di Roma e l’impresa, ricordiamo l’opera ciclopica della risistemazione di tutti i marmi di Piazza San Pietro e della sua pavimentazione dopo la demolizione dei Borghi.

Gli interventi di modifica su piazza dell’Esedra, che videro il completamento della Fontana delle Naiadi.

Come l’artigianato ci insegna, l’economia interna dell’azienda si resse per molti anni su opere di minor pregio artistico ma grande fattura: la fornitura dei cigli stradali per il Deposito Generale Dell’Urbe del Governatorato ed il fatto che in buona parte siano ancora sotto i nostri piedi lo testimonia.

Le macchine continuarono ad essere in funzione ininterrottamente anche durante il periodo bellico.

Non conobbero soste fino al 19 luglio 1943. Quel giorno un gran frastuono. Poi scese il silenzio.

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19 luglio 1943: la Roma produttiva in ginocchio

La furia delle bombe quella mattina non risparmiò nessuno. I cavalli delle scuderie mortuarie, i poveri fiorai su Piazzale del Verano che non poterono che cercare un vano riparo sotto i pini inermi, i bambini in vacanza dalla scuola. L’illusione di una città santa ed impenetrabile rendeva inascoltati i fogli volanti che quasi quotidianamente si libravano leggeri in un terso cielo estivo.

Terso fino alle 11 del 19 luglio 1943, quando con un rombo sempre più cupo si oscurò e sul quartiere in piena attività calarono panico ed oscurità.

I cantieri erano gremiti e rumorosi come sempre. La polvere ed i rumori riempivano le strette vie adiacenti il Cimitero del Verano.

Un volo di ricognizione notturno permise di tracciare una mappa aerea del quartiere al fine di individuare le aree sensibili, quali zone di stoccaggio o produzione di materiale bellico nei pressi dello scalo ferroviario.

Detti punti, individuabili dall’alto grazie al loro aspetto “industriale”, avrebbero meritato più attenzione da parte dei bombardieri durante la nota missione Crosspoint.

Ciò fece sì che la nota birreria Roma, presente nel quartiere, bruciasse per giorni a causa di un feroce bombardamento al fosforo e che le aree intensamente produttive del quartiere , fossero colpite con una ferocia inaudita.

La storica piazza, da sempre casa degli artigiani marmisti, fu teatro di ferocia inaudita

Sulla piccola area del laboratorio Rossi, furono sganciate cinque bombe, provocandone la distruzione pressoché totale e decretandone la fine per almeno un decennio.

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foto via dei volsci

I Fratelli Furioli: moderni imprenditori

Il complesso contesto socio economico che caratterizzò l’Italia e l’Europa dopo il Secondo Conflitto Mondiale, rese la ripresa dell’industria molto lenta, soprattutto in una San Lorenzo sfregiata, devastata fino alle fondamenta.

Dai laboratori  alla Basilica del Santo Patrono del quartiere, senza risparmiare il Cimitero Monumentale, le infrastrutture e gli impianti di approvvigionamento.

Per riprendere qualsiasi attività in un quartiere lacerato, fu indispensabile ricucire gli strappi, ripartendo dalle reti fognarie, elettriche ed idriche. Ci vollero anni prima che uno dei più importanti poli produttivi della capitale si riappropriasse del suo status all’interno dei mercati, ma non tutte le aziende furono pronte a scommettere sul futuro di un’Italia appena uscita da un duro conflitto.

La famiglia Rossi fu una di quelle. Il loro grande laboratorio concluse definitivamente la sua produzione quel 19 luglio 1943. Senza preavviso. Senza immaginarlo.

La famiglia non si riebbe dal duro colpo inflitto e lo stabilimento vide molti anni di abbandono prima di poter tornare all’utilizzo. Utilizzo che tuttavia sarà solo parzialmente rispettoso dell’originaria destinazione d’uso. La grande area fu infatti frazionata in molte particelle dai più disparati usi: depositi, cantine, laboratori e negozi. Un vero e proprio piccolo borgo autonomo pregno di piccole realtà indipendenti, accomunate solo dal cielo di San Lorenzo.

Qui nel 1954 trovò posto anche un nuovo marmista: l’impresa Furioli, che rilevando la vecchia licenza dell’impresa Rossi, si trovò ad occupare il fronte strada dell’antico laboratorio e tutta l’area retrostante.

La scelta dei Fratelli Primo e Vittorio Furioli, di proseguire l’attività cessata tanto repentinamente dalla precedente gestione, influenzò non poco molte delle scelte a venire: gli spazi appena ricavati nel nuovo cantiere, vennero suddivisi in aree distinte di lavorazione, con una concezione molto moderna per l’epoca: il piazzale con il suo carro ponte, il capannone provvisto di macchinari adeguati alla lavorazione esclusivamente di blocchi e grandi spessori, il cantiere per le lavorazioni quotidiane, completo di tutte le più moderne macchine che i tempi potessero offrire ed un ampio ed arieggiato spogliatoio. Nel 1964 il complesso sarà ulteriormente ampliato con l’annessione di tutto il fronte strada, trasformato da officina meccanica ad esposizione, archivio e segreteria.

Dopo oltre sessant’anni, a riprova dell’ottima ingegnerizzazione, gli spazi superstiti conservano ancora la stessa destinazione pensata nel 1954.

Durante quegli anni  così preziosi per la ripresa economica di un’Italia in cerca del consenso internazionale, anche la piccola e media impresa apriva di buon grado le sue porte alle innovazioni ed alle migliorie, facilitando alla nostra economia la ripresa dei nostri mercati interni. Nel suo piccolo, anche l’impresa Furioli, dotò i propri dipendenti di qualsiasi ritrovato tecnologico ed impiantistico all’epoca disponibile: canalizzazione, raccolta, decantazione e riciclo delle acque reflue, serbatoi idrici di emergenza, due impianti di aria compressa ad atmosfere diverse, servizi igienici per il personale. Tutto questo non deve apparire così scontato agli occhi di chi legge, norme come la 626, riferite alla sicurezza dei luoghi di lavoro, sono relativamente recenti ed in un ottica artigiana, degli anni cinquanta o sessanta, spostare l’attenzione dalla produttività, per focalizzarla sulla salubrità dei luoghi, sarebbe stata considerata quasi un’eresia.

Quindi ne ricaviamo il quadro di una famiglia dà una visione molto moderna della propria piccola bottega artigiana, oggi diremmo “imprenditoriale”, sicuramente molto lungimirante ed organizzata, nella quale ogni componente della famiglia aveva un ruolo ben preciso e determinante per far funzionare un perfetto ingranaggio.

L’impegno profuso fu molto ed il consenso del mercato fu ampio, basti pensare che in pochi anni la loro fama e le loro maestranze raggiunsero i mercati, pressochè vergini del Sud America, dove lavorarono su restauri di chiese, altari e nuovi edifici di culto, intuendo, ancora per primi l’importanza delle relazioni diplomatiche anche nel mercato dei marmi e dell’artigianato in genere.

L’occupazione principale rimase tuttavia l’edilizia cimiteriale che contraddistinse l’intera produzione monumentale a massello prodotta negli anni presso l’impianto di via Dei Reti 21, 23.

L’apertura del nuovo polo cimiteriale urbano di Prima Porta, avvenuta a metà degli anni ‘60, provocò il decentramento dell’area produttiva del Verano, portando ad un graduale calo di visibilità di tutte le attività coinvolte nel settore; nuovi capannoni visti con sospetto iniziarono a sorgere lungo le vie Flaminia e Tiberina mentre i gloriosi laboratori di San Lorenzo cominciarono a spopolarsi ed a chiudere uno alla volta le loro serrande.

Malgrado la desertificazione ed il mancato ricambio generazionale, Primo e Vittorio mantennero in funzione la propria attività senza scendere a patti con un mercato ed un settore irriconoscenti verso chi contribuì a portarli verso una maturità tecnica ed espressiva.

Con mezzi e personale ridimensionati, dopo la scomparsa di Vittorio, sopraggiunta nel 1977, il fratello, proseguì mantenendo in vita il solo settore lapideo dell’impresa.

Primo si spegnerà nel 1983, decretando la fine di un sogno imprenditoriale che sfidò i cambiamenti di quattro decadi.

Gli artigiani non cambiano, furono i mercati a cercare di cambiarli. Grammaroli marmi Roma

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Via dei Reti 1985

Gli anni ‘80 si aprirono come uno spiraglio di luce sul buio del plumbeo grigiore degli anni ‘70. La speranza di una nuova Italia pervase gli animi di molti e nel lustro a cavallo del decennio più buio dal secondo dopogerra ad oggi, l’imprenditoria cercò di uscire dal suo letargico torpore, investendo con lungimiranza nel futuro.

Le nuove tecnologie ed i mezzi alla portata di tutti, l’informatizzazione ed un flusso economico veicolato da una politica “spregiudicata” garantirono le basi ad una ripresa dei mercati paragonabile solo a quella del boom del 1960 e fu con queste premesse che i Fratelli Gianni e Mauro, già impegnati nel settore, decisero di credere nelle promesse di un’Italia alla riscossa ed investirono il loro avvenire nel rilancio di un settore stanco e stantio che seppero rinnovare e rilanciare.

Loro l’idea di tornare a produrre vasi e lumi torniti, innescando una vera e propria guerra all’egemonia del bronzo e dell’acciaio, per decenni padroni del settore accessori; loro l’intuizione di istituire una vendita all’ingrosso per marmisti nel cuore del centro produttivo del settore: San Lorenzo. In funzione degli ambiziosi progetti di rinnovamento del settore, avviati già nel 1980, nel 1982 rilevarono i locali già storicamente appartenuti all’impresa Furioli, locali che dal 1984 ospitarono scultori, incisori ed apprendisti in una rinnovata forma di “bottega” molto simile al suo concetto rinascimentale: luogo dove tramandare conoscenze e cultura della materia.

Il resto è storia. Grammaroli marmi Roma

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